COMUNITÀ COME SCUOLA DI VITA
Testimonianza di Arnold Dünner e Gerri Beretta-Piccoli

Da CARITAS INSIEME TV



D: Partendo dalla tua esperienza diretta, cosa vedi di sbagliato nell'atteggiamento di coloro che affermano che è meglio avere dell'eroina sotto controllo piuttosto che dover cadere più in basso?
Arnold Dünne
r: È il presupposto il punto nodale. Un presupposto che può precludere la libertà della persona. Non faccio distinzione tra metadone ed eroina libera, perché il metadone è come l'eroina libera; l'accesso è facilissimo e non incoraggia nessuno a trovare una strada che offra un modo di vivere da persona libera. Col metadone ho trascorso una quindicina d'anni, con diversi tipi di cura (scalare o a mantenimento), smettendo, ricominciando; però a me è parsa una perdita di tempo: vivacchiavo e non mi sono mai trovato in condizione di fare una scelta precisa. La scelta ben precisa l'ho fatta alcuni anni dopo. Quindi è il presupposto, il punto importante: bisogna scegliere tra tenere la persona libera o tenerla "buona", che non infastidisca, che lavori, che appaia normale anche se non lo è. Ma in questo modo manca di dignità ed è senza libertà. Conosco delle persone che hanno una vita "normale", ma di fatto se non passano tutte la mattine dalla farmacia, tutto salta e ci si accorge che quella non è vita.

D: Ma molti affermano che, in fondo, per quella persona è meglio avere questa possibilità di vivere apparentemente dentro una normalità, piuttosto che cadere in situazioni peggiori? ...
Gerri Beretta Picc
oli: È vero, l'individuo può lavorare, ma a mio avviso va stimolato affinché smetta. Se ad una persona diamo il metadone e non la stimoliamo a smettere, questa diventa passiva. (...) Oggi sui giornali c'erano articoli che parlavano dei buoni risultati ottenuti a Basilea: inserimento sociale e meno tendenza a delinquere, e questo mi va bene; ma vorrei vedere quante volte queste persone entrate in cura, si sono sentite porre la domanda "pensi di smettere?". Trovo aberrante che la tossicodipendenza sia considerata solo una malattia. Ogni tanto bisognerebbe dire "smetti!".

D: Ma come fare, allora? Come hai detto tu, si passa da una sorta di quieto vivere a un momento di scelta di essere liberi, che però comporta momenti drammatici. A te, Arnold, cosa è successo?
Arnold Dünn
er: Nel mio caso ero giunto a un punto in cui lo stare male era tale, che qualsiasi "sballo" con gli anni diventava sempre più pesante. Ero giunto alla conclusione o di ammazzarmi o di smettere, ma non è stato questo a farmi decidere. Quando mi sono trovato in un momento simile, ho trovato attorno a me delle persone vicine con una proposta, che mi hanno saputo dare quel aiuto che poi ha potuto innescarne tutta una serie. Sono state persone molto chiare, non disposte a scendere a compromessi come quelle con cui avevo avuto a che fare nel corso degli anni precedenti. (...) La proposta fattami era la seguente: se volevo continuare a giocare o a farmi compatire allora i miei interlocutori non sarebbero stati d'accordo, se ero disposto a fare una scelta chiara e faticosa mi avrebbero aiutato. E così è stato, Gerri è stata una di queste prime persone.

D: Questo mi sembra il punto nodale di tutto il dibattito: essere messi davanti ad una scelta che è dura in fondo, la comunità di Don Gelmini, in cui sei entrato, da questo punto di vista è rigidissima, non è possibilista: con la droga bisogna chiudere definitivamente; non è vero?
Arnold Dün
ner: Certo, ma nello stesso tempo ti sono molto vicini, ti accolgono, in tutti i modi ti aiutano e non dicono che è così e basta. Poi hanno dimostrato con i fatti che sono partecipi alla mia lotta contro la droga.

D: Quindi è possibile essere da una parte rigidi ma dall'altra essere accoglienti nei confronti di chi comunque deve fare un percorso, con scelte particolarmente dure e impegnative?
Gerri Beretta Piccoli
: Tutte le comunità sono rigide; alcuni dicono che andare in comunità è come uscire dalla realtà e immettersi in un posto ovattato. Però il posto ovattato lo protegge, perché in quel momento ne ha bisogno. (...)
Arnold Dünner: A me piace il termine di "comunità come scuola di vita", perché quello che si fa in comunità è capire che cosa sia effettivamente la vita. Adesso comincio lentamente a capire che la vita non comprende nient'altro che ciò che rifiutavo in forma di sacrifici, di rispetto di regole per me insignificanti; ma non solo queste ma pure affetti, amicizia, amore. La realtà comprende queste cose e ciò che insegnano nella maggior parte delle comunità è proprio mettere il ragazzo o la ragazza davanti alla realtà. (...) È una rieducazione.

D: Da cosa nasce la tua posizione che essenzialmente dice un chiaro no alle droghe?
Gerri Beretta Picco
li: Conosco abbastanza bene chi ha portato avanti questa iniziativa. Partita da Zurigo, è stata poi sostenuta da una comunità in Vallese, la Rive du Rhóne. I responsabili della comunità sono a contatto con i ragazzi e discutendo con loro hanno sostenuto l'iniziativa. Essendo a conoscenza della loro buona fede, del contatto continuo che hanno con il problema e della loro opinione sul problema che stiamo trattando, mi sento loro vicino. Attualmente il mio è un sì critico, è comunque la prima volta che in Svizzera si parla di droga a livello nazionale.

Prendiamo il caso del Ticino. Ci sono le Antenne che fanno un lavoro più che discreto, ma a mio avviso andare all'Antenna è un passo molto lungo, richiede un attimo di riflessione. In Ticino non ci sono i famosi educatori di strada. Qualcuno mi dirà che ora si chiamano educatori di rete: ebbene, sono "frottole". L'educatore di strada, aprendo un locale di otto metri quadrati in cui distribuisce la minestra può incontrare qualcuno. La prima volta si salutano soltanto e mangiano assieme, il giorno dopo, si passa dal "ciao" al "come ti chiami?" e in seguito al "perché ti droghi?" ... tutte queste cose da noi non ci sono.

D: Ma è possibile, oggi, guardare in faccia un tossicodipendente e dirgli che l'unica possibilità per lui è il no assoluto alla droga?
Arnold Dün
ner: È possibile se non rimane solo un no, per poi arrangiarsi da soli ... (...) La società mi diceva un no debole, perché avrei potuto continuare a drogarmi per anni, mentre ci sono state persone che mi hanno fatto capire che avevo bisogno di un no radicale. Queste persone mi davano fiducia ed ho cominciato a riflettere seriamente. lo che ho passato quasi vent'anni nel mondo della droga, non posso dire che la droga non sia un male: i miei amici sono morti quasi tutti, solo due o tre dei miei vecchi compagni vivacchiano. Li incontro ogni tanto, bevo un caffè con loro. Ma non sono liberi. lo non posso fare di più ... se vogliono un aiuto, in me lo troveranno.

D: Hai speranze per questi tuoi amici?
Arnold Dün
ner: Il mio caso dimostra che la speranza non cessa mai. Troppe volte ho sentito specialisti parlare di me come di una persona irrecuperabile; me lo dissero già a ventidue anni, come se non ci fosse più stato niente da fare. E invece i fatti hanno dimostrato il contrario. Quindi non mi permetto di considerare nessuno irrecuperabile, perché io stesso per un lungo periodo mi sono considerato tale.